1854-1886 - Le grandi scoperte di Pasteur

Nel XIX secolo, oltre a vedere terminata la secolare disputa sulla generazione spontanea, avviene lo strappo dal concetto di igiene basata sul contagium vivum rispetto all’igiene come scienza dell’equilibrio sistemico di origine greca, sostenuto fino a quel tempo soprattutto da parte della scuola tedesca di Max Von Pettenkofer.

Pasteur e la soluzione definitiva della bimillenaria questione della generazione spontanea al decollo della moderna medicina

Nel secolo delle rivoluzioni borghesi, la forza ispiratrice della nuova scienza dei minimi, al di là di errori, fraintendimenti e attaccamento cieco alla tradizione, era dovuta all’opera genuinamente galileiana di Lazzaro Spallanzani.

Un altro italiano, ancora pressoché sconosciuto, Bartolomeo Bizio (1791-1862), darà inizio nel 1819 alla nuova microbiologia: fu il primo a coltivare un batterio, a scoprirne le colonie, a comprenderne l’azione sulle sostanze che contaminava, e persino a individuare su di esso l’attività antibiotica di una muffa1.

Bizio nel 1819, allora giovane studente in farmacia dell’Università di Padova, fu attratto da uno strano fenomeno diffuso nel Veneto e soprattutto nei dintorni di Padova: la superficie della polenta si metteva improvvisamente a rosseggiare d’un vivacissimo porpora [come scriveva Bizio] laddove altre volte non si producevano, sopra la stessa, che piccolissimi punti o macchiette qua e là sparse.

“Il fenomeno, considerato una sinistra stregoneria, aveva causato ‘alto rumore’ tra i ‘villici’ della regione, rumore che tanto salì da interessare le soavissime e sempre vigilanti cure della Polizia”, come Bizio, con finissimo umorismo, scriverà nel 1823. I tempi, però, erano maturi perché qualche spirito eletto non credesse né al miracolo, né alla stregoneria, come tra i buoni villici padovani, e questo qualcuno fu appunto Bartolomeo Bizio.

Egli allora cominciò con lo studiare in quali condizioni la polenta diventasse rossa, e poté stabilire che ciò avveniva soprattutto se la polenta veniva conservata in ambiente umido e caldo. In ogni modo il fenomeno non era di origine miracolosa o satanica, giacché esso era riproducibile in laboratorio. Tali sue prime ricerche egli pubblicò nella Gazzetta privileggiata di Venezia, ed in seguito nel 1823 pubblicherà una memoria completa sopra il fenomeno della polenta porporina sotto forma di lettera al canonico Angelo Bellani. Successivamente provò che il fenomeno era trasmissibile da polenta rossa a polenta sana, così come provò che “la sostanza porporina […] non poteva essere altro che un animaluzzo della classe degli infusorj, oppure una pianticella fra le minime di quegli esseri”. E attenendosi alle esperienze di Spallanzani cercò di uccidere quegli esseri; impresa che gli riuscì sottomettendo un briciolo di polenta rossa alla temperatura di 120 gradi Réaumur per cinque minuti. Bizio riuscì poi a concludere che l’agente del rosso della polenta è un essere vegetabile, così individuato:

Ho distinto [egli scrive] la mia Serratia col nome di marcescens, imperocché com’essa giunge a maturità, lo che si effettua in poche ore, infradicia prontamente, risolvendosi in una materia fluida e viscida che ha l’apparenzadi mucilagine2.

G. Penso dice del Nostro: “L’opera del Bizio è dunque un’opera rivoluzionaria: è il primo studio sperimentale sull’azione di un germe, è la prima dimostrazione attendibile del valore specifico di un batterio nella genesi di un fenomeno biologico fuori dell’ordinario. Bartolomeo Bizio si deve perciò considerare come il padre della batteriologia moderna e della tecnica batteriologica razionale, come il fondatore della batteriologia applicata, come l’iniziatore della biochimica batterica e il creatore della epidemiologia sperimentale anche se egli lavorò non sopra una malattia umana o animale, ma sull’alterazione di origine batterica di una sostanza organica vegetale.

Con l’opera del Bizio, i seminaria di Fracastoro e il contagium animatum diventano una realtà dimostrabile”.

Pur con grandi difficoltà la teoria fracastoriana iniziava a sbrecciare il possente muro della tradizione ippocratico-galenica, non solo a livello squisitamente sperimentale ma anche più semplicemente a livello medico-culturale, iniziando ad invertire un’egemonia ideologica che durava da ormai due millenni.

Nell’edizione dei Promessi sposi del 1828, il Manzoni, nel capitolo XXII, a proposito dell’epidemia di peste, inserisce una nota che rimanda all’opera del medico ed amico F. Enrico Acerbi (1785-1827) Dottrina teorico-pratica del morbo petecchiale con nuove ricerche intorno l’origine, l’indole, le cagioni predisponenti ed effettrici, la cura e la preservazione del morbo medesimo in particolare, e degli altri contagi in generale, edito da Giovanni Pirotta a Milano nel 1822. In tale opera “Acerbi dissertò con una precisione stupefacente, secondo quanto possiamo giudicare oggi, sulle cause viventi delle malattie contagiose, ma non andò oltre”3.

Ciò significa che, anche se non a livello sperimentale, l’eidos fracastoriano fa ormai parte del bagaglio culturale di medici, il cui comportamento tecnico e la cui visione medica generale influenzano prepotentemente il mondo artistico-letterario del tempo. L’opera manzoniana è da credere potesse “contaminare” notevolmente la società contemporanea anche riguardo allo scontro tra fautori delle teorie contagioniste miasmatiche e fautori del contagium vivum, non ancora risolto.

Frattanto un altro lombardo, Agostino Bassi (1773-1856), dal 1807 si stava occupando di un flagello che colpiva a morte l’industria serica, il mal calcino, ovvero calcinaccio o moscardino, che faceva strage di interi allevamenti di bachi da seta. Bassi, nonostante gli studi universitari in giurisprudenza imposti dal padre, grande proprietario terriero, alunno del famosissimo Collegio Ghisleri, aveva seguito a Pavia i corsi di fisica, chimica e medicina, tenuti da docenti come Volta, Scarpa, Rasori e Spallanzani. Egli si ritenne allievo di Spallanzani del quale aveva seguito le lezioni fino alla morte nel 1799. Egli, partendo dalla convinzione comune per la quale il mal calcino nascesse spontaneamente sotto l’influenza di fattori ambientali secondo il paradigma aerista-miasmatico, cercò di riprodurre artificialmente la malattia ricorrendo ai mezzi più disparati, ma invano.

Allora, come egli scriverà nell’opera che lo immortalerà Il mal del segno, edita nel 1835, “pensai ch’essa non si sviluppasse spontaneamente in questo insetto, e che avesse bisogno di un germe estraneo, che entrato in esso per di fuori la generasse”.

Secondo G. Penso, Bassi doveva conoscere un’osservazione fatta da Enrico Acerbi e da questi pubblicata nel 1822:

Alcune specie di funghi del genere Clavaria vegetano nelle ninfe delle cicale, e fin nel corpo vivente delle loro larve.

Acerbi, però, non mise in correlazione la presenza di quei funghi con una eventuale malattia in atto nelle ninfe di cicale. Così Bassi cominciò col dimostrare “che il mal del segno o moscardino non è già un effetto dello stato di schiavitù cui l’uomo sottopone il filugello”, ma la conseguenza di un contagio.

In 25 anni di ricerca “Agostino Bassi dà una base sperimentale alla teoria del contagio vivo, rivoluziona la patologia delle malattie infettive, fornendo il primo esempio di una malattia sostenuta da un agente infettivo specifico e provocando per la prima volta sperimentalmente una malattia attraverso inoculazioni del suo agente eziologico; determina infine sperimentalmente l’epidemiologia di un morbo infettivo e ne stabilisce una profilassi attiva”4.

Mentre Giuseppe Balsamo Crivelli nello stesso 1835 confermò e descrisse il fungo parassita chiamandolo Botrytis paradoxa, oggi Beauveria bassiana, ancora nel 1845, in un seminario a Padova sul mal calcino, l’ingegnere civile Luigi Saccardo affermerà che il calcino non è contagioso.

Sulla scia delle scoperte di Bassi e della sua risonanza europea, la caccia ai microbi si intensifica e si differenzia su diversi fronti.

I vari tipi di fermentazione avevano da tempo attirato l’attenzione di studiosi: Fracastoro stesso aveva associato i fenomeni putrefattivi al contagio, in particolare nella trasformazione del vino in aceto e del latte in caseum.

Nel 1787 il fiorentino Adamo Fabbroni nella sua “memoria” Ragionamento del far del vino scrisse che una materia vegeto-animale del mosto è in grado di indurre a fermentazione nei corpi ai quali si mescola. Sarà il francese Charles Cagniard de Latour che individuerà nel 1836-37, dopo averli descritti, gli agenti della fermentazione, chiamandoli séminules (piccoli semi). Nello stesso 1837 il tedesco Theodor Schwann illustra ampiamente la cellula del lievito della birra.

Nel 1840 Jakob Friedrich Henle (1802-1885), cattedratico di anatomia e fisiologia all’Università di Zurigo, nel suo libro Von den Miasmen und Kontagien und von den miasmatisch-kontagiösen Krankheiten ipotizzò che le malattie infettive fossero causate da germi invisibili. E, citando i lavori di Bassi sul mal del segno e di Cagniard de Latour sul lievito e sulle fermentazioni, afferma che l’isolamento di un germe da un uomo malato può essere un fatto accidentale e che, per ritenere quel germe come il vero agente patogeno della malattia, occorre reinocularlo e riprodurre sperimentalmente l’affezione.

Tali principi enunciati da Henle spianarono la strada per i successivi studi volti all’identificazione di specifici germi di specifiche malattie trasmissive.

Nel 1841 lo svedese Frederick Theodor Berg scopre l’agente del mughetto, l’Oidium albicans; l’ungherese David Gruby nel 1844 scopre l’agente della tigna tonsurante, che lo svedese P.H.Malmsten chiamerà Trichophyton tonsurans; nel 1846 Karl Ferdinand Eichstedt scopre l’agente della Pitiriasi versicolor nel Microsporon furfur.

Il numero dei miceti patogeni scoperti nell’uomo e negli animali è talmente aumentato che il francese Charles Philippe Robin (1821-1885) sente il bisogno di scrivere un libro su l’Histoire naturelle des végétaux parasites qui croissent sur l’homme et sur les animaux vivants5.

Così nasce la Micologia medica e veterinaria.

Nel 1844, ormai pressoché cieco, Agostino Bassi scrive, anzi detta la sua opera Sui contagi in generale e specialmente quelli che affliggono l’umana specie, il suo testamento scientifico sulle malattie infettive che spronerà moltissimi medici e biologi a fare del XIX secolo il secolo della microbiologia.

In tale sua opera, una ventina di pagine, Bassi ribadisce i motivi logici e sperimentali dell’adesione al paradigma del contagio vivente, esprimendo in modo consaputo i principi di virulenza, attenuazione della stessa, patogenicità, carica microbiologica, immunità naturale ed acquisita. Descrive le conseguenze igienico-sanitarie da tenere in casi di epidemia, sia in ambito preventivo che curativo, sottolineando l’uso di disinfettanti già sperimentati a livello vegetale quali: il calore, il vapore d’acqua bollente, il cloro, l’acido solforico, lo jodio, l’acido nitrico diluito, il manganese, l’alcol canforato. Bassi completa il quadro dando indicazioni molto pertinenti di polizia sanitaria. Bassi, in questa sua opera, affermando chiaramente che nei morbi contagiosi umani “una parte della popolazione è immune per natura” spunta fin dal suo nascere l’obiezione più volte, in seguito, opposta secondo la quale il modello monocausale di malattia introdotto dal paradigma microbiologico è falso, nel senso che il microrganismo è condizione solo necessaria e non sufficiente di malattia 6. Bassi invece fin dall’inizio, basandosi sulla epidemiologia empirica, dà prova di aver capito perfettamente, seppur genericamente, i determinanti delle patologie trasmissibili.

L’uso di disinfettanti in ambito infettivologico propugnato da Bassi, probabilmente non era né del tutto ignoto né inusuale.

Lo scozzese Alexander Gordon aveva proposto nel 17957, nella unanime disapprovazione di medici e ostetriche, che le febbri puerperali fossero considerate un contagium di cui i medici e le ostetriche erano i vettori.

Nel febbraio del 1846 il giovane medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis entrò come assistente nella prima sezione della clinica ostetrica di Vienna, dove la mortalità delle puerpere superava il 18 per cento. Dirigeva la clinica il professore Johann Klein, un anziano ostetrico che sembrava ormai abituato e indifferente a quelle stragi. D’altronde che poteva fare? Ciò che uccide le madri è un miasma invisibile, diceva Klein, è un’epidemia di natura atmosferico-cosmico-tellurica che penetra nel corpo avvelenandolo inesorabilmente. Senonché Semmelweis aveva osservato che nella seconda sezione della clinica la mortalità era tre volte minore, e questa differenza gli aveva fatto comprendere quanto assurda fosse la teoria dei miasmi. La causa dell’alta mortalità per febbre puerperale, egli pensò, andava ricercata in una materia animale. Gli studenti che, terminati gli esercizi di anatomia sui cadaveri, tornavano alla maternità e visitavano le partorienti con le mani insufficientemente pulite, erano responsabili della trasmissione del veleno. Nella seconda sezione ciò non accadeva perché essa era riservata alle esercitazioni delle allieve ostetriche, le quali non avevano a che fare con i cadaveri della sala anatomica. Semmelweis obbligò allora gli studenti a lavarsi le mani in una soluzione di cloruro di calcio e a usare lo spazzolino per le unghie prima di entrare nelle corsie. Il semplice provvedimento bastò a far scendere la mortalità dal 18 al 2-3 per cento. Semmelweis comunicò i suoi risultati alla Società Medica Viennese nel 1847 e alcuni clinici illustri lo appoggiarono, mentre molti altri, come il famoso Wirchow, espressero il loro parere sfavorevole, convinti che la febbre puerperale si sviluppasse indipendentemente dal contagio. Osteggiato da Klein e da altri medici, debilitato per la lotta che conduceva contro quanti lo criticavano, contrasse alla fine un’infezione da cadavere e morì a 47 anni in un manicomio di Vienna scordato da tutti, pagando l’affronto di aver invitato i colleghi a lavarsi prima di toccare le pazienti 8.

La vicenda di Semmelweis ispirò al pasteuriano Louis-Ferdinand Destouches (Céline) la tesi di laurea in Medicina sulla vicenda scientifica ed umana di Semmelweis: Il dottor Semmelweis9.

Curiosamente l’americano Nuland afferma nel 1988 che “Semmelweis fu bistrattato dalle sue stelle perché il suo genio lo condusse ad una scoperta per la quale il mondo non era ancora pronto, e che violò il più elementare principio che costituisce la regola fondamentale di coloro che vogliono scoprire i segreti della Natura: un’idea non deve mai essere presentata prima del suo tempo” 10.

Nuland ritorna ancora sullo stesso argomento nel 2004 per sottolineare in sostanza che, con la pubblicazione della sua Lehre (dottrina), Semmelweis commette gravi errori di comunicazione inducendo solo un rafforzamento della resistenza alla sua teoria 11.

Nel XIX secolo in Europa le epidemie di colera cominciarono a sostituire quelle della peste che andavano scomparendo. La prima epidemia si ebbe nel 1823, propagata da truppe inglesi provenienti da Bombay giunse in Astrakan alle foci del Volga. Nel 1830 il colera riappare oltre che in Russia anche nell’Europa Occidentale fino in Inghilterra. “Lo zar Nicola I intimò con un ukase che il colera fosse considerato contagioso. Invece la facoltà di medicina di Parigi sostenne il contrario e perciò non fu applicata alcuna norma profilattica: nella sola Parigi il colera fece 20.000 vittime, e in tutta la Francia oltre 100.000. Canada, Olanda, Cuba, Messico, Stati Uniti furono invasi nel 1833”12.

Nel 1846 una nuova pandemia di colera scoppiata in Europa, e proveniente dall’Asia dov’era endemica ed epidemica lungo la vallata del Gange e nel Bengala fin dai tempi più antichi di cui si abbia memoria, con capacità diffusiva proporzionale allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, mette in tensione oltre alle pubbliche autorità anche la comunità scientifica medica. Soprattutto in relazione alle peculiari caratteristiche epidemiologiche della malattia stessa sfuggenti alle categorie che si era costruita la scienza medica, tanto da definirla malattia epidemica ma non contagiosa, si riaccese la non sopita controversia tra contagionisti ed anticontagionisti.

“L’esperienza dedotta dalle diverse epidemie colerose fece sì che si accumulasse una serie di osservazioni empiriche: le lavandaie che maneggiavano i panni sporchi dei colerosi erano le prime vittime, così come la carenza d’acqua nei quartieri poveri era vista come un fattore di rischio, così come, del resto, erano zone molto colpite quelle in prossimità dei fiumi, che, per molte fasce della popolazione, erano la fonte di approvvigionamento idrico”13.

“Nel 1849 un’epidemia colpì Londra, e un medico, John Snow, osservò che la maggior parte delle persone colpite avevano bevuto acqua da una pompa in Broad Steet. L’acqua, proveniente dal Tamigi, aveva sapore e odore di fogna. Snow consigliò di impedire l’uso della pompa, e l’epidemia cessò rapidamente. Egli si convinse che la malattia doveva essere causata da un organismo presente nell’acqua, associato all’inquinamento da feci umane, benché in quell’epoca non fosse ancora dimostrata l’esistenza dei microbi”14.

Si trattava di un’esatta misura preventiva adottata prima della scoperta dell’agente causale15, suffragata da Edwin Chadwick (1800-1890), il più grande igienista inglese dell’Ottocento, che nel suo Inquiry into the Sanitary Conditions of the Labouring Population of Great Britain (1842) stabilisce una relazione tra condizioni di vita e tasso di mortalità. L’Inquiry, pur partendo da presupposti teorici sbagliati, cercando di dimostrare che le malattie contagiose erano causate dai miasmi provenienti da animali in putrefazione e da rifiuti vegetali oltre che da scarso drenaggio

e riserve idriche impure, favorì inconsapevolmente l’eliminazione delle fonti di contagio.

Lo stesso Bassi che se ne occupò nel 1849 affermò che:

Il Cholera morbus è prodotto, a mio avviso e giusto le mie osservazioni, da esseri parassiti […] Il germe colerico è un seme di un crittogamo, o muffa o sia fungo più minuto ancora di quello del Calcino.

Il pistoiese Filippo Pacini (1812-1883), chiamato all’Università di Firenze ad insegnare istologia (peraltro per un certo periodo privato del microscopio, che molti dei suoi colleghi ritengono un arnese inutile), “per primo individua la causa della malattia nel vibrione che isola al microscopio sostenendone la contagiosità nel 1854, allorché l’epidemia infuria nella stessa Firenze. Pur consapevole del pericolo che corre, rimane a Firenze a proseguire le ricerche fra i malati, mentre i suoi colleghi, con in testa l’allor celebre Bufalini, convinti assertori della non contagiosità, fuggono in massa dalla zona colpita” 16.

Pacini scrive una monografia nel 1854 dal titolo Osservazioni Microscopiche e Deduzioni Patologiche Sul Cholera Asiatico. La sua opera tuttavia verrà ignorata sistematicamente dai professori del suo tempo17. Non è da lasciare sotto silenzio la nota n. 1 a pag. 27 del suo Cholera Asiatico nella quale l’Autore scrive: “La esistenza di un contagio organizzato nel cholera, che io ho dedotto dal carattere traumatico da me discoperto nelle lesioni intestinali, non che dalle circostanze che accompagnano il distacco dell’epitelio, potrebbe trovare una conferma nelle osservazioni igieniche del Dott. Pettenkofer”. Pettenkofer, professore a Monaco dal 1847 di chimica medica e dal 1866 di igiene, soltanto dopo la scoperta del vibrione da parte di Robert Koch nel 1884, non negherà la correttezza della scoperta, ma vorrà circoscriverne l’importanza, negando di trovarvi la soluzione del problema.

Solo nel 1884 la rivista «Lancet», in un editoriale del 2 agosto rivendicherà a Pacini la sua scoperta sul vibrione colerico, confermata dalla commissione tedesca per il colera presieduta da Robert Koch (1843-1910).

Nel 1850 un altro grande passo avanti era stato fatto nella dimostrazione della natura parassitaria dei contagi: “Pierre-François-Olive Rayer (1793-1867) comunica alla Société de Biologie di Parigi che inoculando sangue splenico di pecora carbonchiosa ad altra pecora sana, questa contraeva il carbonchio, e precisava che nel sangue inoculato vi erano piccoli corpi filiformi aventi all’incirca una lunghezza doppia di quella di un globulo sanguigno. Questi piccoli corpi non presentavano movimenti spontanei”18.

Il chimico Louis Pasteur (1822-1895), nominato nel 1854 professore e preside nella nuova facoltà di scienze di Lilla, è incaricato nel 1856 dagli industriali, interessati alla fabbricazione dell’alcool dalla barbabietola, ad individuare i non pochi insuccessi in tale procedimento. Da qui i suoi studi sulla fermentazione alcolica, ancora avvolta nel mistero nonostante le antiche osservazioni del Leeuwenhoek e dello Schwann, e le più recenti fatte nel 1836 da Cagniard-Latour che aveva osservato come lo stesso lievito di birra nei mosti in fermentazione apparisse costituito da piccole “cellule capaci di riprodursi per gemmazione e agenti sullo zucchero probabilmente per effetto della loro vegetazione sviluppando acido carbonico e convertendo lo zucchero in liquore spiritoso”.

In fatto di fermentazioni dominavano allora le teorie di Berzelius e Liebig. Secondo il primo la fermentazione era dovuta all’azione catalitica di contatto, negando vita vegetale ai globuli osservati da Cagniard-Latour; per Liebig il fermento era una sostanza organica che si decomponeva e decomponendosi disintegrava, al momento della rottura dei propri elementi, le molecole della materia fermentescibile 19.

Pasteur, contrariamente a tutti i chimici coevi, riteneva la fermentazione il risultato d’una azione vitale. Infatti, in base ai suoi studi di ottica cristallografica, egli ritenne di trovarsi di fronte ad una verità dove si delineava un sistema del mondo: solo le sostanze derivate da corpi organici, vegetali, animali, dell’uomo presentano un’asimmetria molecolare. I componenti della cellula sono asimmetrici: quelli della materia inanimata non lo sono. L’asimmetria appariva come una delle grandi leggi della vita20.

Nella sua prima Memoria sulla fermentazione chiamata latticadel 1857, accompagnata da un’esposizione sintetica della teoria dei germi, Pasteur afferma che “la fermentazione si mostra correlativa alla vita e all’organizzazione dei globuli”, e nella grande Memoria del 1860 egli perveniva alla teoria della specificità dei fermenti che consiste nel sostenere che il genere di fermentazione dipende essenzialmente dalla natura dei microrganismi che è all’origine della fermentazione stessa, in contrasto con la teoria dominante di Justus von Liebig, secondo la quale “la causa non è altra cosa che il movimento che un corpo in decomposizione comunica ad altre sostanze”.

Dalla sua teoria Pasteur fu portato a pensare che il tipo di generazione di questi microrganismi dovesse essere necessariamente del tipo normale, cioè tramite discendenza diretta da individui adulti: solo così poteva essere spiegato il fatto che questi organismi globulari conservavano attraverso le generazioni il loro carattere di specificità fermentativa. D’altra parte gli avversari, e lo stesso Liebig, ritenevano che le fermentazioni, le cui cause potevano essere di natura esclusivamente chimica, costituissero un ambiente adatto per lo sviluppo eterogenetico dei microrganismi. “Ecco dunque che il problema della generazione spontanea non veniva minimamente risolto dall’approfondimento dei temi relativi alle fermentazioni intrapreso da Pasteur. Egli stesso mostra di rendersi chiaramente conto che, al punto in cui stavano le cose, un’ipotesi valeva l’altra, ma è anche convinto che il successo della sua teoria dell’origine vitale dei fermenti e la specificità di essi è strettamente legato ormai alla soluzione che si riuscirà a dare al problema dell’origine di quegli esseri scarsamente organizzati”21.

L’opera, di cui alla nota bibliografica n. 21 del presente capitolo, Dal Mito alla Storia, è la più esaustiva per quanto riguarda l’intreccio tra teoria delle fermentazioni e quella della generazione spontanea, a cui A. Cadeddu riserva più di cento dense pagine; tuttavia il fine del presente lavoro esula dai caratteri strettamente filosofici sottesi alla questione.

La teoria della generazione spontanea si carica nel corso degli anni cinquanta dell’Ottocento di valenze filosofiche che vanno dal Creazionismo al Materialismo, a seconda della visione della natura. Inoltre la generazione spontanea, così come la intendevano Aristotele ed i suoi epigoni della Scolastica, richiama invece per altri, schierati su posizioni agnostiche o dichiaratamente atee, la concezione dei materialisti alla Democrito sul problema dell’origine della vita (abiogenesi od origine dalla materia inorganica). La generazione spontanea, più aderente al senso comune piuttosto che alla natura innaturale della scienza22, aveva sotteso da sempre concezioni della natura non solo diverse ma addirittura opposte: ora si trattava di falsificare con gli strumenti tecnologici a disposizione una tale concezione, allestendo sperimentazioni ripetibili capaci di interrogare sul punto la natura, al di là di preconcetti comunque impossibili da estirpare, avendo presente, popperianamente ante litteram, che ogni teoria era passibile di essere smentita più che di essere dichiarata epistemologicamente vera23.

Per Pasteur la scienza è indipendente dalla filosofia, come egli tende continuamente a sottolineare: “il campo della scienza e il campo della filosofia sono separati, ed è un guaio per colui che vuole farli sconfinare nello stato così imperfetto delle conoscenze umane” 24. Così ogni sua affermazione è basata sulla sperimentazione aperta a qualsiasi tipo di critica logica ed oggettiva.

Intanto nel dicembre del 1859, Félix-Archimède Pouchet (18001872), direttore del Museo di Storia Naturale di Rouen, autore nel 1853 de l’Histoire des sciences naturelles au moyen âge, ou Albert le Grand et son époque considérés comme point de départ de l’école expérimentale, prende posizione sulla generazione spontanea con l’Hétérogénie, ou traité de la génération spontanée.

Pouchet ritiene che i materiali di partenza per la generazione spontanea siano solo di tipo organico, contrariamente ai materialisti sostenitori dell’abiogenesi non solo attuale ma anche all’origine di ogni forma iniziale di vita.

Nel 1859 l’Académie des Sciences, volendo chiarire la questione posta da Pouchet, propose questo tema: tentare per mezzo di esperienze rigorose di gettare una nuova luce sulla generazione spontanea.

Pasteur, convinto che la supposta generazione spontanea non era altro che l’effetto dei microrganismi dell’aria, cominciò ad utilizzare particolari accorgimenti atti a raccoglierli e ad individuarli. Egli ebbe l’idea di far passare, per mezzo di un aspiratore, una grande quantità d’aria attraverso un tubo contenente un piccolo stoppaccio di cotone. Esaminato dopo qualche tempo il cotone, egli poté constatare che era stato trattenuto tra le sue fibre, oltre ad una quantità di detriti vari, anche un numero notevole di spore e germi.

Erano queste spore e questi germi capaci di riprodursi e moltiplicarsi?

“Mentre il liquido più putrescibile restava indefinitivamente puro se messo al riparo dal pulviscolo atmosferico, bastava mettere in un’infusione sterile una piccola parte del cotone che aveva servito da filtro per provocare l’alterazione”25.

La serie degli esperimenti presentati con la Memoria del 1861 all’Accademia delle scienze si chiudeva con un ingegnoso artificio tecnico di grande abilità sperimentale: l’uso dei cosiddetti palloncini a “collo di cigno” o a “S”. Pasteur volle dimostrare che, se si usavano certi accorgimenti, anche immettendo aria normale (non sterile) nei matracci, il liquido poteva rimanere sterile. Questo tipo di esperimento rispondeva ad una vecchia obiezione che già nel Settecento gli eterogenisti rivolgevano ai loro avversari. In particolare era stato Needham a obiettare a Spallanzani che l’aria trattata con alte temperature perdeva la sua “capacità” di alimentare i nascenti microrganismi. Le ricerche di Gay-Lussac sulla presenza dell’ossigeno nell’aria avevano rafforzato questa obiezione.

“Pasteur dunque, dopo aver sistemato il liquido dentro il pallone di vetro, ne allunga il collo alla fiamma deformandolo fino a fargli assumere una forma ad S. Poi sottopone regolarmente il liquido all’ebollizione ed infine lascia che la normale aria atmosferica refluisca dentro il pallone mantenuto aperto. Il liquido permane indefinitamente sterile. Le particelle presenti nell’aria sono rimaste bloccate dalle anse dei ‘colli di cigno’. Dunque non è la mancanza di ossigeno che impedisce il sorgere di esseri organizzati”26.

Pouchet obiettò a queste conclusioni di Pasteur opponendo l’impossibilità fisica di una così grande quantità di germi presente nell’aria che, se fosse vera, avrebbe reso l’aria stessa di una densità altissima.

Successivamente a questa obiezione, una serie di esperimenti condotti da Pasteur aprendo i palloni in diverse condizioni atmosferiche dimostrarono la ineguale distribuzione dei germi nell’atmosfera secondo la sua ipotesi di partenza. Ma Pouchet, adoperando infusioni di fieno difficilmente sterilizzabili invece di acqua di lievito come aveva fatto Pasteur, rimase fermo nella sua convinzione sulla generazione spontanea.

L’Académie con atto del 3 marzo 1865 assegnava la vittoria sulla disputa riguardo alla generazione spontanea a Pasteur, considerando la questione definitivamente chiusa.

La questione tuttavia non cessò di agitare le menti dei sostenitori della generazione spontanea: nel 1872, con un volume di 1115 pagine, Henry C. Bastian, professore di anatomia patologica all’University College Hospital di Londra, ne sosteneva ancora la causa. Egli utilizzava urina tenuta a lungo in ebollizione e a contatto solo con aria calcinata (che rimaneva sterile indeterminatamente) aggiungendo poi potassio, poi riscaldava successivamente il tutto di nuovo a 100°-110°, potendo poi osservare l’urina ripopolarsi di germi.

Pasteur, sollecitato nel 1876 dal fisico inglese John Tyndall perché riaprisse la discussione sugli esperimenti di Bastian, scrisse in una nota27 che probabilmente l’errore sperimentale si nascondeva nel potassio aggiunto all’urina.

Alla fine sarà il botanico tedesco F.J.Cohn che, definendo i limiti della temperatura batterica28, dimostrerà nello stesso anno, 1876, come gli insuccessi avuti in certe sterilizzazioni fossero dovuti alla presenza di spore altamente termoresistenti, per cui le temperature di sterilizzazione dovevano essere tali da uccidere non soltanto i germi allo stato vegetativo, ma anche le spore29.

Finalmente dopo più di due millenni la generazione spontanea poteva essere rubricata come definitivamente superata. E, contemporaneamente, si aprirà in modo nuovo l’altrettanto antica questione dell’origine naturale ed evolutiva della sostanza vivente.

La teoria microbica non solo apriva immensi orizzonti sulla conoscenza delle malattie trasmissibili, ma si mostrava fin dall’inizio capace di stimolare soluzioni efficaci su molti fronti. Il successo delle prime applicazioni pratiche del paradigma microbiologico, già durante le tappe della definitiva bocciatura pasteuriana della generazione spontanea, non poteva non apparire più stridente con il cosiddetto nichilismo terapeutico proposto dal medico boemo Joseph Skoda, direttore della Clinica Medica di Vienna dal 1846 al 1871.

Pasteur poteva dire nel 1864 all’Accademia delle Scienze che le malattie dei vini erano causate da piccoli vegetali microscopici e sostenere che la produzione indesiderata nelle bevande alcoliche di sostanze quali l’acido lattico e/o acido acetico è attribuibile a microrganismi vari, batteri compresi. Conseguentemente a tali scoperte fu possibile mettere a punto tecniche specifiche per eliminare i microrganismi dannosi nell’industria vinicola e birraia.

Il chirurgo inglese John Lister (1827-1912), adottando la teoria microbica che attribuiva le suppurazioni a germi dell’aria dimostrati da Pasteur, iniziò ad introdurre nel 1867 la tecnica dell’antisepsi con l’uso dell’acido fenico.

Fin dal 1865 Pasteur fu chiamato dall’industria serica e dal Governo francese a risolvere la moria dei bachi da seta nel Midi della Francia. Alla fine dello studio, nel 1870, Pasteur stabilisce che la malattia dei bachi è dovuta ad un microrganismo che li aggredisce in ogni stadio di vita e che si manifesta con corpuscoli ovoidali brillanti simili a granelli di pepe. Conseguentemente indica di selezionare il seme guardato al microscopio eliminando quello con i corpuscoli e di coltivare solo i semi sani, con ottimi risultati immediati.

Lo scopo di questo saggio non è però quello di descrivere le conquiste della microbiologia, peraltro in continua corsa sia in ambiti biologici sia in campi impensabili come la meteorologia, ma quello di illustrare il confronto tra due paradigmi patologici relativi alle malattie epidemiche trasmissibili, l’umoralismo ippocratico-galenico e la concezione del contagio vivente.

Abbiamo visto che la competizione tra questi due paradigmi non è una battaglia il cui esito possa essere deciso solo sulla base delle dimostrazioni, in quanto li divide una sorta di incommensurabilità tra la tradizione prerivoluzionaria e quella postrivoluzionaria.

Per Ippocrate le entità nosologiche non esistono e non esistono perché non c’è una chiara, possibile separazione. Questo perché secondo la sua concezione la malattia è una perturbazione quantitativa e qualitativa dei quattro umori che consentono infinite possibilità di combinazioni, mentre con il concetto di causa microbica la malattia è definita come un insieme delle perturbazioni che derivano dall’azione di un microbo specifico 30.

Il trasferimento della fiducia da un paradigma ad un altro è un’“esperienza di conversione che non può essere imposta con la forza”31. Piuttosto, come osservava Max Planck nella sua Autobiografia scientifica32 “una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo vedere loro la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono, e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa”.

Scrive, a tal proposito, Sergio Pennazio (Ricominciamo dal DNA, «Sapere», ottobre 2004, p. 86) che il pensiero di Aristotele ebbe grande influenza sulle scuole naturalistico-filosofiche che si avvicendarono nei due millenni successivi, sicché neppure le dimostrazioni sperimentali offerte nel 1668 da Francesco Redi, nel 1765 da Lazzaro Spallanzani, nel 1861 da Louis Pasteur riuscirono a convincere alcuni testardi uomini di scienza che la generazione spontanea era una poetica chimera. Si pensi che un personaggio di rilievo della biologia moderna come Ernst Haeckel, pur convinto sostenitore dell’origine a partire da materiale inorganico, scrisse che sarebbe stato impossibile dimostrare l’infondatezza della generazione spontanea. Anche un eminente botanico come Karl Nägeli sostenne che negare la generazione spontanea significava ammettere un miracolo.

E ciò è in linea con quanto sul consenso alla scienza afferma E. Severino:

Anche il fatto scientifico è un “padrone” che ha bisogno del riconoscimento del “servo”. K.R.Popper ha osservato che i fatti sono accettati nella scienza nello stesso senso in cui, in un processo, i fatti che hanno un reale peso giuridico sono quelli che la giuria decide siano i fatti realmente accaduti. La ricostruzione dei fatti operata dalla giuria è il loro riconoscimento sociale. Il fatto ricostruito (che ha la potenza di far scattare l’applicazione della legge-sia come legge del diritto vigente, sia come legge delle scienze fisiche) è il “padrone”; la giuria il “servo”. Senza consenso sociale, dunque, niente scienza e niente potere scientifico 33.

Pettenkofer ed alcuni suoi allievi, nel 1872, a voler dimostrare l’inefficienza del germe del colera a provocare di per sé la malattia, ingerirono colture fresche di commabacilli senza risentirne danno grave. Meno di dieci anni dopo Pettenkofer si suicidò34.

La prima legislazione antimalarica italiana del 1878 si basava ancora sulle teorie miasmatiche, tanto che il Parlamento italiano, dei tre fattori ritenuti responsabili della malaria: l’aria,la terra e l’acqua, scelse di concentrarsi sul più pericoloso e il più facile da sanare: l’acqua. “Curiosamente, i legislatori ricalcarono le orme dell’Antico Regime, riponendo nelle opere di bonifica la speranza di prevenire la formazione di effluvi nocivi, responsabili della malaria. Come aveva fatto Pio VI (1775-1799) con le Paludi Pontine, anche il Parlamento italiano tentò di liberare dalla febbre l’Agro Romano bonificando gli acquitrini presso il delta del Tevere. L’imponente programma sperimentale di risanamento delle paludi fu completato nel 1889. Purtroppo il tentativo fallì miseramente, proprio come quello attuato dal Papa nel Settecento”35.

La scrittrice Susan Sontag, che non è stata uno storico della medicina, scriveva nel 1988 che “anche dopo il superamento della teoria miasmatica il miasma sopravvive, destituito dal suo ruolo di causa primaria, sotto forma di fattore ausiliario nella spiegazione di molte malattie”. Aggiunge inoltre che “mentre la categoria ‘morbosità generica’ fu eliminata gradualmente dal pensiero medico dell’Ottocento, grazie alla nuova conoscenza dell’estrema specificità di ciò che provoca le malattie, essa si spostò al territorio, allora in piena espansione, della psicologia. [...] L’opinione diffusa secondo la quale molte o quasi tutte le malattie non sono ‘in fondo’ fisiche, ma mentali, perpetua in versione rinnovata la forma della teoria miasmatica, con tutto il suo sovraccarico di causalità e di significato; e ha avuto un notevole successo nel corso del XX secolo”36.

Conclusioni

I successi continui del nuovo paradigma microbiologico articolato e ramificato in sempre crescenti specializzazioni ha cambiato il volto della biologia e quindi della medicina tradizionale prepasteurianac, passata dal nichilismo terapeutico premicrobiologico di Skoda agli esagerati entusiasmi degli anni settanta del secolo scorso, stroncati dalla comparsa dell’epidemia di AIDS nei primi anni ottanta.

L’epidemia di AIDS non solo mette fine all’ottimismo terapeutico che aveva fatto sperare di sconfiggere una volta per tutte ogni sorta di microrganismo, ma introduce il sospetto nei confronti della scienza biologica. Da quel momento nei mass media circola e si rafforza il timore che gli scienziati della microbiologia, per motivi militari oltre che speculativi, manipolino a tal punto i microrganismi patogeni o meno fino a creare situazioni di rischio per l’umanità.

Ormai le conoscenze che ci fanno più paura sono quelle relative alla biologia 37. Così “la conoscenza biologica non sta diventando segreta nel senso stretto del termine, ma i suoi aspetti pericolosi stanno lentamente diventando tabù, proprio come è accaduto mezzo secolo fa per il pericolo insito nella tecnologia nucleare” 38.

P.H. Duesberg e B.J. Ellison pubblicano nel 1996 Inventing the AIDS virus, edito in Italia nel 1998 da Baldini & Castoldi di Milano con la prefazione del Nobel per la biologia K.B. Mullis: una vera e propria negazione del rapporto virus Hiv e Aids 39.

A. Nikiforuk, epigono di Duesberg, nel suo libro fortunato Il Quarto Cavaliere (Milano, Mondadori, 2008), chiude la sua opera affermando testualmente: “La medicina moderna rimarràuna forza mutila al cospetto delle epidemie, a meno di abbandonare la teoria dei germi per guardare a esse come a bruschi sconvolgimenti ecologici della cultura umana”.

In aggiunta le ricorrenti campagne “informative” su temibili virus che saltano da specie a specie e che si formano in serbatoi umani e/o animali (oltre che in laboratori terroristici) volontariamente o meno instillano nell’opinione pubblica il costante sospetto o addirittura il panico microbiologico.

Così la notizia lanciata dai media nel novembre 2011, secondo cui i ricercatori dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam in Olanda, guidati da Ron Fouchier, hanno prodotto una variante estremamente contagiosa del virus dell’influenza aviaria H5N1 in grado di trasmettersi facilmente a milioni di persone, scatenando una moria planetaria apocalittica, ha già indotto una pandemia da panicod.

Insomma, il nuovo paradigma, da determinante principale del cambio di patocenosi della nostra epoca, diventa agli occhi dell’opinione pubblica una specie di vaso di Pandora in mano ad apprendisti stregoni capaci di cambiare in negativo i destini dell’Umanità. Ora dei filmati per la diffusione via web fanno vedere e quasi toccare con mano le infezioni più raccapriccianti, rese da possibili a probabili dalle nuove condizioni di trasporto di massa 40. A dispetto di tutto ciò la potenza euristica della microbiologia conserva ancora intatte le proprie potenzialità sia in campo pratico nel controllo delle malattie epidemiche ed in ambito produttivo, che in ambito prettamente speculativo-sperimentale.

In campo pratico la microbiologia non solo dà ragione delle patologie trasmissibili ma anche di alcune forme tumorali41. Il Direttore del Dipartimento Malattie infettive, parassitarie e immunomediate dell’Istituto Superiore di Sanità Giovanni Rezza afferma che “si stima che circa un quinto, se non un quarto, di tutti i tumori sia di natura infettiva, con i virus a fare la parte del leone”42. Sempre in ambito pratico, “l’analisi dei meccanismi del sistema immunitario si è confermata una delle frontiere più promettenti per lo sviluppo di terapie nuove su un ampio spettro di malattie”43. Negli ultimi decenni un’autentica rivoluzione silenziosa è intervenuta nelle conoscenze dell’immunità frutto dell’integrazione della genomica con la proteomica con la decifrazione delle prime parole-biochimiche con cui il sistema immunitario si esprime nel suo interno e nei confronti del suo organismo nella prospettiva della conoscenza integrale del suo vocabolario, della sua grammatica e della sua sintassi.

In ambito prettamente speculativo-sperimentale inoltre la microbiologia potrebbe giungere a spiegare molte patologie ritenute finora solo di tipo degenerativo. Un filone di ricerca del tutto nuovo e relativo alle “vibrazioni” del DNA si sta indirizzando sulla valutazione dei segnali elettromagnetici di spezzoni di Dna batterico nel plasma sanguigno di pazienti colpiti da Alzheimer, Parkinson, sclerosi multipla e artrite reumatoide44. Per quanto riguarda le variazioni della attuale patocenosi nel mondo sviluppato, i successi continui delle terapie antivirali uniti alle più recenti acquisizioni in ambito immuno-oncologico fanno prevedere che il cancro sarà la patologia che sostituirà le malattie infettive quale fattore di contenimento e selezione nella specie umana.

Quanto all’origine della vita, anche se, come dice Carobenee, i batteri non finiscono mai di stupire, in campo speculativo-sperimentale “l’affermazione di Pasteur che ogni vivente deriva da un altro vivente (omne vivum ex vivo) continua a concordare pienamente con tutti i dati sperimentali della chimica prebiotica. Fino ad oggi non si è riusciti a rendere plausibile come le prime cellule possano rappresentare un’eccezione a questa regola. Se le ricerche future potranno dimostrare tale eccezione resta da vedere” 45.

In ogni caso, agli scienziati e solo ad essi, che pure hanno perso il ruolo di sacerdoti del progresso illimitato e certo, è affidato il ruolo di approfondire con il metodo scientifico “principale strumento conoscitivo inventato dall’uomo”46 ogni conoscenza positiva possibile sull’origine della vita, del linguaggio e del pensiero umano.

Se poi, come ritiene il fisico Robert B. Laughlin, premio Nobel per la fisica nel 1998, Dio gioca a dadi con l’universo47 fin dal suo inizio, allora la Scienza, avendo scoperto un tanto, sarà ancor più titolata di quanto non lo sia stata finora a continuare nel proprio compito di diradare l’oscurità 9

Fonti / Bibliografia

Tratto da Due millenni di epidemie: miasmi o microbi? Saggio sul percorso bimillenario di due paradigmi patologici contrastanti.
Per gentile concessione dell’autore, Giovanni Andrea Avanzi © Copyright 2015

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